Intervista a Gioia Aloisi

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Intervista a Gioia Aloisi

D: Gioia Aloisi è docente di Arte presso il Liceo di Brera, professore a contratto presso l’Università Bicocca di Milano, Artista ed ex professoressa Vivaio. Prof, quando è entrata in Vivaio?

R: Nel 1987, a ventitré anni, vinsi il concorso per insegnare e mi invitarono a scegliere la sede. Tra queste c’era la Vivaio. Mi dissero: non accettare questa cattedra. E’ piena di ciechi, tu ti sei laureata con una tesi sulla percezione visiva. Poi bisogna fare domanda di utilizzo e non è detto che te la rinnovino. 

Io ebbi un’intuizione: voglio questa.

D: A distanza di pochi anni la Scuola subì un piccolo terremoto. Come avete risposto?

R: Minacciavano di chiudere la scuola e di mandarci non si sa dove. Di farci perdere la cattedra, il patrimonio che avevamo portato. Abbiamo dovuto trovare un modo per cambiare i giochi. Come dei carbonari, mettevamo a disposizione una casa a turno e dopo cena, messi a letto i ragazzi, studiavamo questo progetto con la musica al centro, nato nel 1975. Cercavamo di farne uno con caratteristiche che nessuno avesse, conservando la specificità musicale, ma connotandolo con una struttura adeguata all’inclusione e alla compartecipazione di tutti all’apprendimento.

Scoprimmo una legge che permetteva la sperimentazione: era la legge 419 del 1974 ex articolo 3. Alla fine del 1989 abbiamo cominciato a scrivere il nuovo progetto e lo abbiamo presentato al Ministero, che lo ha approvato a gennaio 1990 e poi rinnovato di anno in anno.

Avevamo ampliato il discorso, pensando che ciò che facevamo con i non vedenti fosse di vantaggio per i vedenti. Il progetto che avevamo messo in piedi con i colleghi garantiva ai ragazzi vedenti e non vedenti dei vantaggi e una tipologia di apprendimento basata sull’integrazione. La scuola si arricchiva di Laboratori e di spazi dove i ragazzi partecipavano al loro progetto di apprendimento. Dal punto di vista artistico, con Ada Ceola – la mia collega di allora per Arte – si mise a punto un metodo polisensoriale.

D:  Mi parla del metodo polisensoriale? 

R: Ci eravamo rese conto che quando si disegnava un albero senza avere informazioni, il risultato era stereotipato sia per i non vedenti che per i vedenti: erano entrambi ciechi. Entrambi avevano bisogno di riscoprire la realtà per poterla disegnare in modo personale e realistico. Si trattava di un percorso di scoperta della realtà usando tutti i sensi e non solo la vista.

I ragazzi toccavano gli alberi… e il toccare le cose diventò importante per tutti. 

I vedenti dicevano: io lo avevo visto, l’albero. Ma adesso vedo come sono le foglie, come cambia la corteccia. E il non vedente diceva: anche io lo vedo. I compagni lo prendevano in braccio. Sentivano com’era costruita la ramificazione, come cambiavano le forme. Costruivamo un modellino della ramificazione in fil di ferro o in sughero e poi disegnavano l’albero. Da qui cominciai a comprendere che l’immagine è un’esperienza che comporta l’affinamento del sentire più linguaggi convergere; un’immagine si guarda e si crea con il corpo, con il gusto, con il tatto, con l’udito, con un ‘esperienza teatrale, con l’ascolto di suoni, profumi, odori, con tecniche tradizionali e non.

Scoperte successive hanno confermato che la percezione che implementa tutti i sensi induce a un rinforzo delle abilità mentali, cognitive, mnemoniche e di rappresentazione. Ad esempio, Kleim e Jones (2008) hanno pubblicato un articolo che prende in rassegna numerose ricerche relative al tema della neuroplasticità, identificando dieci criteri che traducono (sul piano pratico delle esperienze riabilitative, terapeutiche ed educative), le condizioni della modificabilità cognitiva strutturale e della neuroplasticità. L’odorare e il gustare riaprono la sensorialità. Danno input che vanno alla corteccia cerebrale e che aprono a percezioni sempre più evolute. L’ultimo criterio, che denominano il “multi-sensory effect”, rimanda infine alle modalità di presentazione degli stimoli durante un intervento: la varietà di stimoli e di esperienze proposte (tattili, visive, motorie, ecc.) favorisce la possibilità di elaborare un’informazione utilizzando modalità differenti, offrendo quindi all’esperienza di apprendimento una maggiore significatività. 

Era esattamente ciò che avevamo scoperto già allora.

D: Nel progetto avete aperto i laboratori tattili ai vedenti. Con quali vantaggi per i ragazzi?

R: Il vantaggio era quello di lavorare insieme a scoperte paritarie, dal punto di vista della rappresentazione. Entrare in contatto con la materia (panni, stoffe, fagioli, sabbia…) portava a fare rappresentazioni sensoriali condivise. Con una collaborazione tra loro: per la cromia i non vedenti avevano bisogno dei vedenti; per l’esperienza tattile raffinata, i vedenti avevano bisogno dei non vedenti. E c’era la possibilità che i vedenti si rendessero conto che i non vedenti potevano dar loro informazioni importanti. Che potevano far loro gustare il mondo. Così tutti i ragazzi e le ragazze (in un progetto integrato di sollecitazione sensoriale e motivazionale condivisa), potevano rappresentare il mondo in modi anche molto vicini all’arte contemporanea e nel contempo sollecitare la loro plasticità corporea e neuronale.

D: Mi parli del vostro approccio alla poesia.

R: Della poesia i ragazzi sentivano il profumo, il rumore, la forza delle cose. 

“Pianto antico”: L’albero a cui tendevi la pargoletta mano, il verde melograno da’ bei vermigli fior… Portavo in classe il melograno da toccare. Il sapore del chicco dolce e acre, il paragone con il figlio… 

“La pioggia sul pineto”. Uscivamo in cortile, tiravamo fuori l’ombrello… e piove su i nostri vólti… lo chiudevamo.

Tutto si amplifica, in questa direzione. E’ una compartecipazione allargata, un lavoro paritario e condiviso.

L’assalto al forno del Manzoni. Se lo fai con la farina, a spintonarti, con i sacchi buttati… l’atmosfera di quel momento la cogli. 

Sulla via della seta di Marco Polo: se lo racconti così, è una noia mortale. Se cominci a dire: quante sete avete toccato, quali sensazioni vi rimandano? La seta cruda dà una percezione di un certo tipo, la memoria ti rimanda a certe sensazioni. Non tutte rimandano le stesse. Il velluto porta delle evocazioni di altra tipologia. Se tocchi la seta cruda senti un gusto antico di tessuti non raffinati, di contadini, quando si mettevano le belle vesti per sposarsi… Si aprono altri mondi della cultura storica della cultura dell’artigianato… Toccando il tessuto, la mano si sposta e crei la linea del tempo, e puoi andare avanti e indietro, e dentro ci sono dei sapori che puoi assaporare, annusare. 

Nell’arte multisensoriale sono coinvolti tutti i sensi. Oggi si parla di multimodale: c’è anche l’apporto culturale e il sentire emotivo.

D: Mi parlava di un percorso di “scoperta della realtà”

R: Abbiamo lavorato sulla sollecitazione percettiva: da lì parte la possibilità di recuperare il gusto delle piccole cose. Il gusto dell’altro. Il rispetto dell’altro. Era un viaggio di scoperta per ritornare ad esplorare diversamente l’arte per riscoprire il mondo.

D: Quale legame c’è tra scoprire la realtà e gustare la realtà?

R: Come fare ad apprezzare la poesia? In quanti modi posso leggere la parola verso di universo? Teatralmente, intendo: vado verso? Oppure unico verso? E’ un verso poetico, che recito? 

Basta una parola che l’altro pronuncia in un altro modo, con un altro timbro, e di quanti versi si arricchisce l’uni-verso del mio verso

Ver so: qual è l’unico vero verso? E’ unico o sono tanti?

E i ragazzi mi dicevano: prof, è bellissimo…

Siamo accomunati da versi comuni. Qual è il verso che abbiamo in comune?

D: Ehm… (Rimango un attimo bloccata. Non per la domanda in sé, ma perché ho un dubbio: possibile che questa domanda sia rivolta a me? Che le interessi quello che ho da dire io? Abbozzo una risposta) Aehm… In comune… abbiamo un verso… per partecipare

R: In una parola, quante cose! Questa parola, verso, che inizialmente ci sembrava vuota, comincia a riappartenerci. 

La scoperta che è tutto ricco, l’entrare nelle cose con l’intento di farsi delle domande… 

In quanti modi possiamo gustarci la vita: con le poesie, con la musica, toccando gli alberi. 

Se fatto insieme, è più bello. Farci insieme delle domande, darci delle risposte diverse… Il contenitore diventa interessante. 

D: (Cercando di dire qualcosa di sensato, dopo la scena muta di prima) Si tratta di creare un contesto.

R: Sì, con – te – sto! Sei consapevole che l’altro ti porta un dono, non lo consideri qualcuno che ti dà fastidio, che rallenta il ritmo… La possibilità della scoperta della realtà del mondo arriva dall’altro. 

La scoperta del Duomo di Milano: essere con un non vedente che ti dice: è cambiato l’odore… e ogni passaggio dà una sorpresa continua, e mano a mano che cammini il pavimento cambia, diventa tridimensionale, e senti il passare del tempo, cambia la percezione sulla pelle… 

Mi sono scossa dalla mia percezione di vedente quando Silvano un giorno si gira verso di me e mi dice, nel bagno c’è il terzo lavandino che perde. Mi chiedo, possibile che non ho sentito? In lontananza comincio a sentire un lievissimo scroscio. 

Da lì è cominciato un mondo di scoperte, ho iniziato a sviluppare una percezione aperta alla poliedricità, e l’hanno aperta anche i ragazzi, che mi chiedevano: che si va a scoprire oggi?

D: Nel progetto avete inserito un’ora in più di Arte

R: Arte tattile (o ricostruita o drammatizzata), non poteva esser fatta nelle ore di disegno. Abbiamo iniziato a costruire le opere d’arte drammatizzandole. Ne L’ultima cena  di Leonardo i ragazzi interpretavano gli apostoli, con i loro gesti: com’è messo lui, io chi sono, tu chi sei? 

Giuda è ritratto seduto di tre quarti, le mani sono messe in quel modo… La lettura iconografica si arricchiva di simboli. 

D: Poi sono nati gli assemblaggi ritmico sonori. 

R: Che ognuno suonasse uno strumento non bastava, occorreva che melangessero tutti gli strumenti. Siamo arrivati a delle piccole orchestre. Poi è nato il coro. Poi è nato il laboratorio di teatro. 

D: Com’è nato il progetto del teatro?

R: Durante l’intervallo ho proposto ad alcuni alunni non vedenti e vedenti di costruire un piccolo spettacolo, inizialmente erano pochi, abbiamo cominciato così  a creare costumi di carta, poi di stoffa, immaginando uno spettacolo. Pian piano, non andava più nessuno all’intervallo, moltissimi avevano voglia di farlo “davvero” questo spettacolo. Ai ragazzi e alle ragazze piaceva tantissimo. Ci siamo detti: questa è una cosa che piace, che porta a stare insieme. Perché non facciamo in modo che il laboratorio di teatro diventi una materia curricolare? 

E’ diventato un grosso motivo di inclusione perché i vedenti si rendevano conto che i non vedenti memorizzavano prima. Che avevano coraggio, fiducia nell’altro: ad esempio, negli esercizi di abbandono corporeo.

I professori di educazione motoria con i ragazzi/e facevano delle coreografie magnifiche. Io mi occupavo della recitazione. Altri professori dei costumi… Partecipavano gli insegnanti di musica e di lettere, per far scrivere le sceneggiature… I ragazzi portavano poesie, chiedevano ai genitori di guardare nelle biblioteche di famiglia per il copione. Cercavano le robe, i cappelli, le stoffe per i costumi, le scenografie. Gli chiedevamo: portate tutto quello di inutile che avete a casa: fili, nastri, vecchi pezzi di stoffa, cravatte, il giubbetto della mamma che non mette più… Loro arrivavano e dicevano, abbiamo questo, cosa possiamo fare?

Poi ci riunivamo: tutti facevano qualcosa, chi le luci, chi provava, chi metteva i chiodi per le coreografie… era un lavoro di équipe molto interessante, una fabbrica alla Andy Warhol.

D: Come funzionano i laboratori di teatro? E perché favoriscono l’integrazione?

R: I laboratori sono formati da classi diverse. Quando lavori in un’ottica di integrazione modifichi la struttura, decontestualizzi il setting classe. In una classe assumi un certo ruolo; nel laboratorio puoi essere nuovo, giocarti un’altra possibilità. Si mettono anche i più timidi nelle condizioni di poter esser ascoltati.

Per la preparazione alla drammaturgia allora non si partiva dal “si fa questo”, ma dall’ascoltare i ragazzi, dal prepararli al contatto con l’altro, al rispetto dell’altro e dell’altrui opinione. Lavorare su territori che sono lo stare bene a scuola significa potersi fidare, essere ascoltati, avere uno spazio per te dove puoi dire qualsiasi cosa e tutto il gruppo è complice, ciascuno rispetta il territorio dell’altro. Ogni momento Laboratorio aveva una struttura precisa che garantiva un’alfabetizzazione al mondo del teatro, una preparazione alla recitazione, un’attenzione all’essere. La struttura era: accoglienza, training corporeo e rilassamento, fase di lavoro, circle time, saluti.

Alla fine del training facevamo i circle time e dicevamo cosa avevamo sentito. Tutti potevamo parlare, e venivano fuori le voci anche di chi non parlava mai, ed erano voci eloquenti, voci di chi lavorava nel profondo. 

A chi parlava sempre, davano una sorta di choc. Si sentivano dire: ho sentito parlare di te in un certo modo, ma mi rendo conto che invece sei delicato, mi rispetti… 

Cambiavano i termini della relazione, capivi la possibilità di poter esser visto in un altro modo. 

Poi c’era un filo rosso: se uno di noi non c’è, non è la stessa cosa. Nessuno veniva lasciato sul palco da solo. E se qualcuno si ammala, l’altro deve prendere il suo posto: tutti devono sapere cosa accade, avere in mente il copione. E lì sono successi dei miracoli. 

Una volta è saltato l’impianto audio.nel corso dello spettacolo finale delle terze. I ragazzi hanno cominciato a cantare. E ballavano sul loro canto. Una cosa magnifica. Si dicevano: vai avanti. E intanto i genitori cercavano di sistemare gli impianti. 

Un anno avevo un ragazzo con sindrome autistica, emetteva solo suoni gutturali. Gli piacevano le palline, abbiamo creato una scena con le palline. Nessuno parlava, tutti facevamo dei suoni, e lui non era diverso, era dentro il lavoro di teatro. Per loro era un’esperienza magnifica da portarsi dietro. Un modello di società… una forma di educazione civica vissuta. 

D: Per quanto riguarda matematica, avete aggiunto un’ora nel programma

R: Si giovava di una strumentazione (un tavolo di elastici,il cubaritmo, la dattiloritmica, un circuito creato con la radio per la sintesi vocale per i vecchi pc olivetti a diodi verdi, stampanti, barra braille…) che aveva bisogno di più tempo, abbiamo ampliato di un’ora anche questa disciplina, ed è stata messa in piedi la prima aula di informatica e più tardi il Laboratorio di scienze.

D: Professoressa, mi dice qualcosa sulla sua formazione?

R: Mi sono laureata all’Accademia di Belle Arti, con una tesi sul rapporto tra percezione visiva e opere d’arte. 

Negli anni ‘60 era attivo un movimento di artisti che si occupavano di fenomeni percettivi. Dialogavano sulle opere d’arte correlate alla percezione ottica. Mi riferisco al Gruppo T, al Gruppo N, all’arte cinetica e programmata. Approfondii profondamente le loro ricerche.

D: Ritrovo molto del suo lavoro nelle intuizioni di quegli artisti che producevano oggetti generatori di un qualcosa che “si fa” mentre il fruitore lo ispeziona; e che si opponevano alla figura dell’artista-demiurgo: svolgevano un lavoro in collettivo. 

R: A Milano avevo conosciuto e intervistato Bruno Munari, Enzo Mari (designer milanese), Mario Balocco (esperto di percezione ottica e spazio, padre di un trattato sulla cromatologia), Denise René (gallerista francese esperta di arte cinetica, moglie del fondatore del movimento artistico dell’Op art, Vasarely). 

Le sculture “da prendere a calci” di Gabriele De Vecchi, ad esempio, erano una sollecitazione che prendeva in considerazione tutto il corpo, non solo l’immagine visiva. 

D: Bruno Munari con i libri tattili aveva proposto delle attività per incoraggiare i ragazzi a scoprire usando le mani.  Sollecitati, i ragazzi hanno cominciato a chiederle: che si va a scoprire oggi?

R: I ragazzi si confrontavano con il dare senso a quello che stavamo facendo. Io chiedevo: che senso diamo a questa cosa? cosa vogliamo comunicare al pubblico? 

E loro: ma come, dobbiamo dirglielo noi? 

Sì. Volete portare il messaggio di Shakespeare o la vostra interpretazione del messaggio di Shakespeare? Un conto è portare in scena il “Sogno di una notte di mezza estate”, un conto è dare il senso a quest’opera. 

Che cosa è il Sogno, dal punto di vista di quello che entra nei sensi e nel corpo?

E cominciavano a dire: mah, io questa frase la capisco così. Io sento il profumo del fiore. Io vedo un asino con una testa grande, il corpo che puzza… Cominciava a prendere corpo il Sogno, letteralmente. Non erano lettere morte.

Il processo e lo spettacolo erano entrambi importanti. Come si muoverà questo asino? Come parla? Come cammina Oberon, e Titania com’è vestita, come parla?

I ragazzi dicevano: io mi muovo così. Io non so. E un’altra: anche io mi muovo così, vieni con me, che sono abituata. Le stereotipie morivano. Era un costruire la possibilità di crescere con la bellezza del crescere. Se anche non vai bene in qualche materia non è un fallimento, guarda come sei abile a muoverti qui, e questo era utile ad aumentare l’autostima degli allievi tutti, nessuno escluso.

Era un recupero della parola e dell’essere dentro la sostanza del messaggio e del testo, visivo o letterario che fosse; con la consapevolezza che l’opera d’arte non è solo degli occhi, ma è un‘esperienza totale che comporta l’affinamento del sentire più linguaggi convergere, per “scoprire l’invisibile” insieme. 

Molti di loro conservano ancora il filo rosso che regalavo alla fine del lavoro, era un simbolo. Oppure le frasi regalate da Luisella Inga o da altri docenti: erano un potente messaggio che voleva andare a farli sentire parte di un tutto, un Vivaio di energie.

(fotografia di Mario Dotti, ex genitore Vivaio)

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