Intervista alle professoresse Villa e Santese
La professoressa Villa è vicepreside della Scuola e insegnante di flauto traverso. Com’è avvenuta la sua formazione musicale?
Villa: Mia madre aveva avuto l’intuizione di farmi studiare in una scuola bilingue: il metodo aveva a che fare con l’apprendimento precoce della musica e delle lingue, sono conoscenze che vanno sugli stessi canali. La mia insegnante, tedesca, adoperava già metodologie moderne – oggi note come metodo didattico del do mobile, ritmica imparata con naturalezza senza solfeggio, ritmica legata al movimento… -, che avrei poi riscoperto nel mio insegnamento.
In prima media inizio a studiare flauto traverso, il primo anno non faccio alcun solfeggio ma nessuno si pone nessuno il problema. Quando passo ai corsi professionali – non al propedeutico, che ho saltato – c’è un’insegnante bravissima ma severissima che mi dice: non puoi restare in questo corso.
Io avevo occhieggiato gli altri fare solfeggio, e applico quello che avevo imparato, con naturalezza.
Mi ripresentai dall’insegnante – che si era dimenticata di avermi detto che non potevo continuare – e proseguii nel suo corso.
La professoressa Santese insegna flauto traverso alla scuola Vivaio. Com’è stato il suo primo approccio con la scuola Vivaio?
Santese: Sono arrivata alla Vivaio nel 2009 per una supplenza, quindi un po’ per caso. Il nome della scuola mi aveva sempre incuriosita, questo “Vivaio per ciechi” lo immaginavo come un mondo strano. Il primo impatto con la scuola è forte, si arriva in una dimensione che sembra quasi surreale. Mi sono ritrovata allora in un mondo che effettivamente mi ha sorpreso, ma più di tutto mi sono sorpresa di me stessa perché non avevo difficoltà a relazionarmi con la disabilità. Se non si ha un po’ di sensibilità e di flessibilità può essere difficile, io sono riuscita a scoprire un lato di me stessa che prima non avevo avuto modo di conoscere. Tutt’oggi vedo delle cose che mi sorprendono ancora, come ragazzini che si dedicano ad altri compagni con difficoltà, e ne sono felice perché questi giovani studenti hanno la possibilità di sviluppare una sensibilità che altrimenti resterebbe nascosta. Mi sono sempre sentita un po’ privilegiata di essere in questa scuola, ho la sensazione di poter imparare sempre qualcosa di nuovo e di poter fare delle esperienze che mi arricchiscono molto dal punto di vista umano.
Per lei, professoressa Villa?
Villa: Alla fine del mio anno di prova feci domanda di trasferimento dall’Arcadia Pertini, lontana da casa (avevo due bambini piccoli). La chiesi e la ottenni, non sapendo assolutamente di che scuola si trattasse – circolava voce che l’orario di musica non fosse solo di pomeriggio.
L’approdo alla Vivaio fu culturalmente scioccante. Il primo collegio docenti fu uno choc perché a parte la durata infinita (dalle 9 alle 14), gli infiniti litigi dei colleghi con la dirigente, la dirigente che mi chiese quattro volte chi fossi e che cosa volessi… c’erano colleghi variegati, vedenti e non vedenti, con e senza cane, una collega di flauto bravissima mezza paralizzata… nonché il rifiuto di tutto il gruppo, vivevano il lutto del mio predecessore. Anche gli alunni gli erano affezionatissimi, era molto originale, portava i polli di plastica in aula, gli piaceva scherzare… Arrivai a casa e piansi, dove ero capitata, povera me. In realtà durò molto poco tutto questo.
Ci sono stati tanti anni in cui è stato necessario conoscersi: era una scuola così diversa, per certi versi chiusa, mi passi la parola, nel senso che c’era questa esperienza per il personale così totalizzante, questa gente che veniva e andava, questo orario… non penso di esagerare, ci volle del tempo, furono almeno sei o sette anni di reciproca conoscenza.
Dopo un po’ l’orario lo comprendi, ma capire fino in fondo a cosa servono APS, cos’è il laboratorio tattile, perché c’è un’ora di coro e una di musica anziché due ore frontali, perché c’è teatro, come funziona educazione fisica speciale… entrare un po’ in tutte le logiche…
Mi piaceva tantissimo, naturalmente, e ci fu un’evoluzione nell’insegnamento dello strumento: quando arrivai c’erano dei ragazzi che non facevano strumento, ma c’era un gruppo volenteroso di professori in ricerca. Era un confrontarsi e parlare insieme, un guardare come lavorava il collega, un far lezione insieme, un chiedersi: cosa facciamo con questi ragazzi? Con loro siamo arrivati a rendere sempre più inclusivo l’utilizzo dello strumento, abbiamo cercato gli strumenti, dovevano esser a disposizione di tutti…
Santese: Una cosa che la musica può fare è proprio quella di dare a tutti la possibilità di contribuire al raggiungimento di un risultato comune, soprattutto la musica d’insieme. Nel momento in cui ci si trova a suonare insieme agli altri, anche un piccolo contributo diventa importante per realizzare qualcosa di più grande e più bello. Secondo me la musica è per eccellenza coinvolgimento di tutti, in questo ho molto creduto. Si impara sempre qualcosa anche durante le lezioni singole, ma queste sono in funzione di qualcos’altro, cioè del fare musica insieme, che è la cosa più bella dell’essere musicista.
Parlateci della vostra relazione con i ragazzi: come li aiutate a raggiungere i risultati scolastici?
Santese: Ci vuole moltissima flessibilità, bisogna porsi degli obiettivi che non sono da raggiungere in senso assoluto, bisogna aspettarsi di percorrere strade completamente diverse da quelle immaginate. Raggiungere obiettivi che si avvicinano a quelli programmati, o che creativamente sono la stessa cosa, o che si avvicinano al risultato in modo molto originale, ed essere contenti perché prendendo strade alternative si sono raggiunti obiettivi che sono serviti ad altro, magari per la vita.
Villa: La cosa che ho sempre capito è che dagli alunni bisogna lasciarsi guidare, perché sono loro che ci fanno vedere che cosa è meglio per loro.
Uno dei ricordi di uno dei miei “fallimenti” più grandi è stato quello di una alunna che chiamerò Ofelia, una ragazza bellissima, portatrice di handicap, che non aveva alcun senso del ritmo, per cui quando suonava la melodica (abbandoni l’idea di usare il tuo strumento), non c’era verso. Io mi ero incaponita che dovesse acquisire un minimo senso del ritmo, la facevo marciare in corridoio. Mi ero inzuccata.
Un giorno mentre camminavano lei disse: mi scappa la pipì. Doveva fuggire alle mie manie…
Lei aveva un aspetto di forza, quello di saper narrare. Mettemmo in aula una tastiera elettronica e improvvisando a modo suo, con tutte delle sue modalità, glissando, con tanti suoni insieme, ritmi concentrati… Raccontò la storia dell’aquila e del fringuello che non sapeva volare. Parlava dei tentativi che faceva il fringuello più e più volte per spiccare il volo. Lei commentava a volte in modo ironico, mi faceva degli scherzi, rideva molto. A una cosa brusca dava un certo effetto.. entrava in un suo mondo.
Era talmente simbolica che era la sua storia. Avevo composto per lei, per accompagnarla, una sorta di tappeto sonoro che i compagni di classe suonavano con il flauto. E’ ancora uno dei ricordi più emozionanti.
Santese: Ho avuto la possibilità di insegnare il flauto traverso a ragazzi meravigliosi che inizialmente non sembravano avere alcuna attitudine musicale. Ho avuto due alunni sordi profondi. Suonare il flauto traverso senza poter sentire ciò che si produce con lo strumento è quasi impossibile, se non riesci a sentire non puoi capire se sia giusto o sbagliato. La scommessa è stata riuscire a far suonare bene i due ragazzini, e così è stato. Se l’insegnante, e lo studente (di riflesso), ci mette anima, buona volontà e crede di potercela fare, si può fare veramente tutto. In questi anni ho scommesso su cose che nella vita non immaginavo di poter fare, e le ho viste materializzarsi…
In che senso l’insegnamento non è solo “stare in classe”?
Villa: Si impara come ci si comporta in corridoio, ci sono dei compagni non vedenti, non posso spalancare una porta di botto, non posso correre come un pazzo… La particolarità è che è la Vivaio è una scuola inclusiva alla meno uno, non sono stati i normodotati che hanno accolto i ciechi, ma i ciechi che hanno accolto i vedenti, c’era tutta una logica dietro alla costituzione della scuola che era dedicata ai ciechi, tutto era rivolto alla cultura della conoscenza della disabilità della vista.
Santese: Un grandissimo aiuto è stato poter avere l’esempio di altri straordinari insegnanti, ho avuto colleghi vedenti e non vedenti che sono stati di grande esempio. Mi sono sorpresa di aver imparato tanto senza che qualcuno mi dicesse cosa fare o non fare in una scuola per ciechi, come ad esempio capire l’importanza di non lasciare uno zaino per terra nel corridoio.
La Scuola Media non dovrebbe guardare innanzitutto al raggiungimento della performance e dei risultati eccellenti. Vi riconoscete in questo?
Villa: La Scuola guarda a un progetto di vita, è un pensare alla persona e non al “futuro ingegnere”, “futuro medico”. Se non c’è dietro la persona…
Santese: Io credo che i ragazzi, anche quelli più vivaci o a cui non “gliene frega” di imparare uno strumento musicale, abbiano dentro comunque qualcosa di buono. Uno dei nostri compiti è tirare fuori quel qualcosa, far capire loro che ci crediamo.
Villa: Ricordo che all’Arcadia Pertini, la scuola in cui sono entrata in ruolo nel 2006, era stata recuperata la motivazione di un ragazzino a venire a scuola: veniva perché c’era la lezione di flauto. Con l’insegnante di sostegno avevamo fatto un grande lavoro. Si lavorava molto sullo scegliere un repertorio che piacesse ai ragazzi, con una musica accattivante, altrimenti – con il rientro a scuola previsto alle 17.00 – molti avrebbero preferito restare a casa. Un ragazzo aveva il padre ex carcerato, era un talento musicale pazzesco, venne il padre e con toni “poco benevoli” disse: mio figlio frequenterà solo la musica d’insieme. Il pomeriggio chissà in che giri lo spingeva. Ma il preside disse: facciamo finta di niente, anche se non viene alla lezione singola di strumento, e riusciva comunque a stare in pari.
Santese: La scuola bada anche al benessere delle persone. Mi ritrovo tante volte a dedicare del tempo (delle mie brevi lezioni) a sentire se c’è un disagio o se c’è qualcosa di positivo che i miei alunni vogliono esternare, e mi rendo conto che questi momenti si ripercuotono positivamente sulla didattica. Aiuta anche il fatto di stare tante ore insieme in una comunità unica, con cambio continuo dei gruppi dovuto al progetto incentrato sulle classi aperte, e di conseguenza si impara ad avere tanta flessibilità nelle relazioni…