Intervista a Pino Distaso, direttore del coro dei MYP ed ex professore Vivaio

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Intervista a Pino Distaso, direttore del coro dei MYP ed ex professore Vivaio

Pino, mi parli della tua formazione?

Io a otto o nove anni avevo tutto: libri, film, musica. C’era una biblioteca di tre stanze piene di libri. Leggevo sai, libri… Libri di quadri, di mappe… Avevo le raccolte dei pittori, mi ero innamorato del Nudo sdraiato di Modigliani.

Mio padre, ingegnere, oltre a suonare il mandolino era appassionato fotografo. Il nostro bagno si trasformava in una stanza di stampa fotografica. Lasciavamo le fotografie ad asciugare nel bagno.

Di notte invece di andare a letto mi nascondevo dietro alla porta in sala. Papà e mamma davanti alla televisione, io zitto zitto mi mettevo a guardare. Una sera i miei escono (papà si è fidato tantissimo di me), mi dicono di badare a mia sorella più piccola che dorme. In televisione c’era Nosferatu il vampiro… 

Un’estate, sarà stato inizio anni ‘60, avevo nove o dieci anni, in campeggio. In una roulotte con altri ragazzi e ragazze più grandi ci siamo sintonizzati su Radio Luxembourg. Abbiamo ascoltato Beatles, Rolling Stone, e dischi americani che in Italia non trovavi…

Dai libri e dai film ho cominciato a creare il mio immaginario. Un’idea di immaginario che mi ha seguito tutta la vita.

C’è stato il ‘68. Le parole d’ordine che mi avevano fatto scattare erano “fantasia al potere” e “servire il popolo”! 

Servire il popolo” e “Fantasia al potere”: come sono diventate parole d’ordine?

Ho insegnato, ho fondato un coro con i genitori. Prima ancora: durante un’occupazione al Conservatorio io e altri ragazzi facciamo amicizia con gli studenti, forziamo l’ingresso della sala Puccini, prendiamo possesso del teatro. Ci mettiamo a fare scuola. In quel periodo insegnavo già musica in alcuni laboratori a Milano, non occorreva essere laureato. Funziona: la sera si riempie di gente che vuole imparare uno strumento!

Il direttore del Conservatorio Marcello Abbado non ci caccia e fondiamo i corsi serali popolari di musica, una scuola per adulti che volevano imparare uno strumento non per diventare professionisti, ma per piacere, e poi siamo diventati un’associazione. 

A proposito della tua formazione: come hai imparato a suonare?

Mio padre mi dava i libri di musica, imparavo da solo. Avevo la manina, questa andava e andava. In seguito ho cominciato a studiare lo strumento. 

Durante il liceo facevo l’attore di cabaret. Conosco Abatantuono, Fabio Concato. Ci metto due anni in più per finire, mi bocciano. È andata abbastanza bene perché mio padre non perde la fiducia in me e mi iscrive a una scuola privata.

Mi sono laureato in discipline delle arti, della musica e dello spettacolo a Bologna. 

Un giorno vado in università Statale a Milano, al primo festival del jazz, e leggo “Pomeriggio dedicato alle giovani promesse, sono aperte le iscrizioni”. Da lì faccio i concerti, ho realizzato il primo disco nel 1976, e intanto studiavo al DAMS con Aldo Clementi, Franco Donatoni, Umberto Eco… Da Roberto Leydi, etnomusicologo, è nata la mia passione per la musica del popolo! 

Poi Giorgio Gaslini, grande compositore e mio mentore, porta me, musicista di strada… dice, vieni a vedere il mondo della musica classica. 

Mi parli della musica del popolo?

La musica popolare è la radice di tutto! I grandi musicisti si sono ispirati alla musica della propria terra. Chopin ha scritto le danze polacche, Bedřich Smetana una composizione sulla Moldava, il fiume che è l’anima della repubblica ceca… Il musicista ha sempre preso da quello che aveva alle spalle. Un musicista prende un tema popolare e ci fa una composizione per orchestra. Pensa al blues. E come erano interessati i ragazzi! 

Quando hai iniziato a insegnare in Vivaio?

Io arrivo in Vivaio nel 1995, cercavano un professore che ne sapesse di teatro. Io avevo già girato tre film e fatto sei commedie in ambito scolastico. Trovo questa scuola sperimentale, aveva una spinta etica – qui era entrata la libertà del ‘68 – ma radicata nel passato. 

In Vivaio ho portato la musica dei popoli, la musica pop moderna e leggera. Avevo pianificato che ogni laboratorio di educazione musicale diventasse una band. Più il coro dell’integrazione che avevo fondato insieme a Silvano Pasquini, ci cantavano proprio tutti. Poi è venuta Antonella Alzini a sostituirlo. La Vivaio è la scuola del lavorare insieme, tu fai lezione ma hai due insegnanti di sostegno in classe: altri due adulti. Per teatro ogni anno si si fa una commedia, un lavoro di gruppo con tantissimi professori. Professori di italiano, matematica…

Facevamo tre concerti all’anno. Si vedevano in presa diretta i ragazzi, i professori, l’organizzazione per sistemare i gruppi. La scuola… Questo modo di rendere pubblica la didattica ha contribuito a rendere la scuola famosa. Avevamo quattro volte o più di richieste di ragazzini rispetto a quelli che si potevano prendere. Vista la richiesta, si sarebbe dovuta duplicare!

Come è nato il coro dei genitori, i Mamas Y Papas?

Nell’anno ’95/’96 mi accorgo che i genitori sono appassionati di musica: le mamme cantano, i papà suonano, e viceversa. Propongo di fondare una band a titolo gratuito, con l’idea che la scuola sia un motore di cambiamento per i ragazzi e per le famiglie: la scuola fa cultura per il territorio, non solo per i ragazzi. Raccolgo subito adesioni. Entusiaste adesioni. C’è una spinta forte: le famiglie si sentono vicine alle attività dei ragazzi. I genitori dicono, guarda che adesso ci suono anche io, nell’orchestra. Si fanno spiegare la musica dai ragazzini.

Ci accorgiamo che tra i genitori non professionisti c’è della gente anche brava, a suonare. Per non parlare di chi la musica la fa di professione. Tutti nel gruppo del coro aiutano ad istruire i meno attrezzati: il discorso dell’inclusione funziona benissimo anche con gli adulti, in musica. Facciamo un concerto per i genitori delle prime, una serata di accoglienza in un locale; poi altri concerti durante l’anno.

Il coro procede, anno dopo anno. Cambiano i genitori, e cambiano il coro e i musicisti. Negli ultimi 10 anni c’è un gruppo di persone che non esce: è troppo divertente cantare con band musica pop. E’ un modo per stare insieme, una situazione di incontro sociale non scontata.

Tornando ai ragazzi: come si porta la musica popolare in classe?  

Pensa ai repertori popolari. Per il 25 aprile, sul filone costituzione, a scuola si suonavano le musiche che parlavano della Resistenza. Si andava in gita a Marzabotto, a casa dei fratelli Cervi. 

A Natale c’era la canzone milanese: “Crapa pelada l’ha fa’ i turtei ghe ne da minga ai so fradei…”

Raccontavo le storie dietro alle musiche. Il Lied Il Re degli Elfi di Shubert, tratto da un componimento di Goethe. Goethe parla di un padre che una notte cavalca tra i boschi al galoppo, velocissimo e tutto intabarrato, per portare il figlio in fin di vita al medico del villaggio vicino. Immagina che durante la traversata il piccolo, in preda alla febbre, senta il re degli elfi chiamarlo: gli dice “Vieni a me e starai bene”. Vuole portarlo via, è la morte che lo vuole!

Fratelli d’Italia. L’Italia, immagino una bella donna vestita di bianco, i capelli scuri e mossi, si mette in testa l’elmo, simbolo di gesta eroiche e valorose… L’Italia chiamò! Quando un ragazzino sa il contenuto, l’interpretazione ne guadagna tantissimo, prende corpo.

Io sono fumettista, immagina: spiegare la storia della musica e intanto di disegnare alla lavagna un soldato romano che suona la buccina.

Prendiamo Beethoven. La lettera ai fratelli. Eccola: “Se talvolta ho deciso di non dare peso alla mia infermità, con quanta crudeltà sono stato ricacciato indietro dalla triste, rinnovata esperienza delle debolezza del mio udito… Come potevo confessare la debolezza di un senso che in me dovrebbe essere più raffinato, e che un tempo raggiungeva un grado di perfezione massima… Se sto in compagnia vengo sopraffatto dalla paura che si noti il mio stato… Quale umiliazione ho provato quando qualcuno, vicino a me, udiva il suono di un flauto in lontananza e io non udivo niente… Tali esperienze mi hanno portato sull’orlo della disperazione e poco è mancato che non ponessi fine alla mia vita. La mia arte, soltanto essa mi ha trattenuto. Mi sembrava impossibile abbandonare questo mondo prima di aver creato tutte quelle opere che sentivo l’imperioso bisogno di comporre; e così ho trascinato avanti questa misera esistenza… Addio, non dimenticatemi del tutto, dopo la mia morte…” 

I ragazzi conoscono il personaggio, entrano nell’atmosfera. 

Poi, quando li ho preparati, li porto in aula di musica e con il volume adatto gli faccio ascoltare la Nona Sinfonia… Comprendono il rapporto tra l’uomo e la sua opera. Conoscono quello che c’è dietro! Porti ai ragazzini la realtà delle vite attraverso la musica. Loro non vedono l’ora.

In fotografia: dipinto di Pino Distaso, dalla copertina dell’album “Tell her it’s all right” di Pino Distaso, Roberto Gotta e Beto Cutillo

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