Intervista all’ex professore Vivaio Silvano Pasquini
Silvano Pasquini è stato inizialmente allievo della Scuola per Ciechi Vivaio e successivamente, quando la Scuola si è aperta agli alunni vedenti dal 1976, ne è diventato professore.
Com’è avvenuta la sua formazione?
Dopo le scuole elementari a Reggio Emilia ho proseguito con gli studi musicali a Bologna, cinque anni. Successivamente ho dovuto allontanarmi dalla famiglia per frequentare la scuola dell’Istituto per Ciechi a Milano, con Alberto Mozzati, uno dei concertisti più in voga e famosi di allora. Aveva allievi dal Giappone, dall’America… Ho conseguito il diploma di Pianoforte e di Organo e composizione. Poi mi sono abilitato per l’insegnamento e mi hanno chiesto di diventare professore in Vivaio.
Ci parli della nascita del Progetto e della sua diffusione
Quando si scrisse il primo Progetto, negli anni ‘70, lo si fece per sfondare le porte del vecchio. Si prese a spunto l’idea di una scuola di integrazione con vedenti e non vedenti, per cercare di dare qualcosa di nuovo al discorso scolastico.
Si pensava e sperava che potesse esser ripreso anche da altri (se penso che una persona di Lecco debba venire a Milano…). Nel ‘93 il progetto venne aggiornato e portato a Roma. L’intenzione era quella di creare una scuola come Vivaio in ogni capoluogo di provincia, dare la possibilità di frequentarla in più centri. La volontà governativa di allora non permise.
Quindi già allora il rinnovamento e lo sviluppo della scuola erano un vostro obiettivo?
La scuola è sempre stata considerata uno strumento aggiornabile. A Milano la scuola aveva un successo enorme. Ci si dava da fare, si lavorava la sera, non si andava mai via da scuola, e quello che veniva fuori era davvero nuovo.
Si erano ideati i laboratori di attività pratiche che permettevano di avere a che fare con il legno, di fare esperienze che altrove non c’erano. C’erano strumenti (ad esempio il piano di gomma con il foglio) che davano alla scuola le potenzialità per poterci stare bene.
Si partiva per aiutare le persone che avevano più bisogno, sapendo che in questo caso gli altri ne avrebbero tratto più vantaggio.
Ha qualche consiglio perché la scuola venga “riconosciuta” anche dalla comunità non scolastica?
Fare manifestazioni, eventi di musica d’insieme, mostre, laboratori… mostrare la scuola in giro… e per questo occorre lavorare bene, far sì che si veda l’impegno delle persone che ci lavorano.
Ascoltando lei e altri professori della Vivaio, si ha l’impressione che per voi l’orizzonte delle cose possibili sia molto ampio. Sicuramente un orizzonte più ampio di quello di molti altri contesti educativi
Qualcuno si è assunto responsabilità pesanti. Ci è voluto del coraggio da parte di tanti colleghi perché ci facessero delle cose. La settimana bianca con tutti i ragazzi… Le esperienze fatte da questa scuola con le varie gite di terze e seconde, erano una passione ma anche la consapevolezza che ci volesse del coraggio. Per quello che ho vissuto io, quel coraggio è sempre stato premiato.
E ci ha portato anche a questa considerazione: che con un briciolo di esperienza e con un po’ di strategie diversificate si possono fare tante cose, anche con persone che avresti diagnosticato come incapaci e non in grado di farle.
Qual è per lei il rapporto tra musica e integrazione?
La musica è un’opportunità. Per i non vedenti è un’opportunità assoluta di comunicazione con sé stessi e con gli altri. In secondo luogo dà diversi sbocchi lavorativi, non è cosa da poco. Con la musica ho avuto la mia integrazione, quando d’estate tornavo a casa in Toscana verso i 16 o 17 anni, avevo la casa piena, chi mi chiedeva di suonare, chi un arrangiamento per un complessino…
Il pianoforte è uno degli strumenti più facili da esplorare per un non vedente, ha dei punti di riferimento indissolubili (l’alternanza tra tasti bianchi e neri). Il problema è imparare le cose da suonare. Chi vede mette il libro davanti e legge lo spartito mentre lo suona, noi dobbiamo prima imparare la mano destra, poi la mano sinistra, poi mettere insieme e sperare che tutto vada bene. Poi quando lo hai in memoria il brano lo possiedi in maniera artisticamente perfetta. Ne conosci vita, morte e miracoli.
Ci parli delle sue lezioni
I ragazzini li conoscevo più o meno tutti, intanto perché in prima e in seconda si facevano attività corali miste insieme, avevi una prima e una seconda, 40 persone assieme circa, in base all’ampiezza delle classi.
Poi c’erano i laboratori, classi aperte dove avevi alunni tuoi e del collega. Si facevano scambi di esperienze diverse che potevano arrivare indiscriminatamente: “Si potrebbe fare anche questo…”. Ik ragazzi mi trasferivano queste competenze, e gli insegnanti delle altre classi. Mi comunicavano le loro esperienze e io le potevo prendere, come del resto il collega poteva prendere le mie.
La scuola è strutturata in un modo sui generis, è difficile avere una scuola con queste esperienze e possibilità di apprendimento e di socializzazione: è una scuola in cui si fa “didattica socializzata”.
Per il laboratorio di musica avevo inventato il motto “Assemblaggi Ritmici e Sonori”. Si imparavano le nozioni sul ritmo in prima media, poi un po’ di melodie particolari su cui davo delle indicazioni. I ragazzi poi facevano a loro volta delle cose, che poi venivano messe insieme. Prima le si sentiva separatamente e poi tutte insieme. Per chi veniva da fuori era un baccano insopportabile. Per chi era dentro invece era la certezza che tutti avevano fatto il loro risultato. Era una concezione musicale assolutamente moderna che aveva un senso, un recupero di quello che è il sistema dell’attuale musica moderna.
I suoi ex studenti la descrivono come un super eroe: in grado di distinguere durante un coro non solo chi avesse cantato e come, ma anche chi fosse rimasto zitto, e chi avesse alzato una penna, e pure di quale marca
Come fa un non vedente a insegnare a un vedente? Lo fa mettendo in campo anche le proprie debolezze, facendo capire che ci sono delle difficoltà. Ad esempio, io il segnare alla lavagna non l’ho mai fatto, ma l’ho detto subito ai ragazzi che non lo avrei fatto. Mi avvalevo della capacità fotografica per cercare di chiarire con le parole come fosse fatto, ad esempio, un pentagramma: cinque righe, quattro spazi… tutta una serie di spiegazioni che poi prendevano forma perché i ragazzi avevano il libro, di cui io aveva la copia in braille.
Poteva contare sulla sua capacità descrittiva
La capacità descrittiva è importante anche da parte degli altri. Una mia ex collega mi ha inviato una foto e me l’ha spiegata bene, ho capito cosa fosse.
Oggi c’è la sensazione che i ragazzi debbano raggiungere certi risultati, pensando alle ripercussioni sulla futura occupazione
Qualsiasi tipo di disciplina avrebbe giovato loro dal punto di vista personale, prima di tutto. Poi poteva diventare professionale. Si doveva studiare prima di tutto per essere sé stessi, per avere delle ambizioni, per avere degli obiettivi. Per capire cosa fare. Per capire!
Oggi diciamo no, non devi capire. Devi fare quell’altro e quell’altro ancora… È diventata una società diversa. E una scuola a servizio del mercato.
Tornando ai suoi studenti, e al ricordo che ha lasciato loro…?
Le persone hanno di me un ricordo particolare, ma io sento di non aver fatto niente di particolare. Siccome l’alunno in genere tenta di fregare il professore – l’ho fatto anch’io, capirai se non lo facevano loro -, qualche volta ho preso dei ragazzini che tenevano le cuffie mentre io spiegavo. Facevamo il coro, e qualcun altro si dipingeva le unghie dall’altra parte. Devo dire che alcuni sicuramente non li avrò beccati, ma ne ho beccate tante di situazioni. Ma le ho sempre vissute con molta sportività e naturalezza, dicevo loro, guardate che a scuola ci sono andato anch’io. Non pensate che sono una persona che non viene ingannata. Ma c’è una piccolissima diversità: io lo facevo con persone che avevano occhi grandi come fanali, voi con me, che non è difficile. Siamo a scuola, so che può succedere. Rimanevano così. Non gliela avrebbe detta nessuno, una cosa così.
La forza che mi ha tenuto in vita trentasei anni alla Vivaio è la semplicità, l’umiltà di presentare ai ragazzi anche le difficoltà. Oltre a fargli vedere le cose che per loro potevano essere sensazionali, gli facevo vedere le difficoltà. In linea di massima ero uno di loro. Avevo un sistema probabilmente molto nuovo di insegnamento. Un’interrogazione andata male non era da bocciatura, insufficienze ne davo pochissime e solo a chi mi diceva che non aveva voglia di studiare (in maniera preconcetta). Se non ce la fai, perché ti devo dare un cinque? T’interrogo la prossima volta, sperando che possa andare meglio.
L’insegnamento era comunque un far vincere le battaglie ai ragazzi. Sono stato premiato dai ragazzi per come mi sono comportato con loro.