Intervista ad Alessandra Morini, ex professoressa di Lettere in Vivaio

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Intervista ad Alessandra Morini, ex professoressa di Lettere in Vivaio

D: Sandra, parlaci un po’ di te

R: Io ho avuto due inciampi nella mia vita, di cui potrei vergognarmi. Ma sono quelli che vediamo anche nel mondo vegetale. Quando le piante hanno una strettoia, ad esempio il glicine costretto tra le sbarre di un cancello, l’energia si trattiene, ma poi… ah, esplode!

Alle medie ero completamente nella nebbia, mia mamma diceva che ero un pulcino nella stoppa. Io sono nata a dicembre. In seconda media sono stata bocciata. Ed è stata una benedizione perché sono entrata nella mia classe di età, e ho sentito che potevo andare verso gli insegnanti. Ero nella comunicazione. E loro potevano comunicare con me. Lì ho iniziato a fiorire come allieva, il mio potenziale ha cominciato finalmente a manifestarsi.

L’altro inciampo l’ho avuto quando non ho superato l’esame orale per insegnare filosofia al liceo. Mi sono ritrovata “ricacciata” alle medie, a fare l’insegnante a quella classe d’età. La vita era come se mi avesse indicato: lì devi stare.

D: Quando sei entrata in Vivaio?

R: Ho insegnato in Vivaio per 11 anni, dal 1990 al 2001. Prima mi sono formata, come insegnante, a Gratosoglio, in una scuola sperimentale, la Moneta. C’erano grande  progettualità condivisa tra noi colleghi, tanti laboratori, momenti interdisciplinari e   interclasse. E poi per alcuni anni ho lavorato sul sostegno alla Gramsci, nel quartiere della Barona.

D: Vuoi parlarci del teatro, e di quanto sia utile per la crescita dei ragazzi e per la didattica? 

R: Nel teatro si va oltre la parola scritta. Il teatro riguarda il gesto, l’incontro, la voce, l’ascolto, la presenza… Per tanti, la scoperta di sé e del proprio potenziale, grazie a questa particolare esperienza, è stata significativa. 

E’ interessante sentire – a distanza di un certo numero di anni – cosa resta negli allievi, di quei momenti, e ascoltarli in quella dimensione di memoria e di restituzione del vissuto.

Ricordo che c’è stato un momento (ancora mi commuovo) in cui una ragazzina non vedente – non della mia classe – si è resa conto nel Laboratorio di Teatro, che le mancavano le espressioni del volto legate alle emozioni, delle espressioni coerenti con le battute che doveva recitare. Le mancavano perché non le aveva mai viste, perciò non le conosceva. Ha sentito improvvisamente un senso di spaesamento e di angoscia e l’ha condiviso. E io ho potuto intuire la sua difficoltà, quel suo limite così profondo e così difficile da accettare.

Il progetto teatro delle terze, alla Vivaio, prevedeva diversi laboratori interclasse. Lavoravamo in tanti docenti. E’ stato importante avere colleghi come Gioia Aloisi e Silvano Pasquini perchè sapevano tessere e tenere insieme i diversi gruppi, in modo da garantire  coordinamento, unità d’intenti, fluidità. E’ stato significativo condividere esperienze precise, di spazio, di suono, di relazione, di movimento…

Questa consapevolezza sul corpo, del corpo, è importante. Da un punto di vista pedagogico significa tenere sempre presente che siamo organismi complessi. Non siamo mai senza il corpo, anche quando impariamo Storia. Siamo sempre con il corpo e con i sensi, con tutta la storia e le esperienze che abbiamo dietro e con la prospettiva e i sogni che abbiamo davanti. Siamo una realtà multidimensionale. Una pedagogia che tenga conto di questa complessità è una pedagogia che ci aiuta ad accorgerci di noi e del nostro potenziale, ad esprimerlo, e ad essere creativi.

Bisogna rinunciare ad alcune ore curricolari (mi riferisco soprattutto alle scuole che non hanno il tempo pieno), ma quello a cui è necessario dare spazio è l’esperienza dell’essere  completamente allineati: corpo – gesto – comunicazione – contesto – contenuto. 

E’ ciò che il teatro riesce a far sperimentare e dà la possibilità di vivere pienamente, ed è forse la cosa che più forma l’individuo a sentirsi veramente integrato e radicato qui e ora. E’ un’esperienza molto forte e bella.

D: La settimana bianca è un altro momento peculiare della scuola Vivaio

R: Si faceva in seconda. Io dicevo, in Collegio: ma insomma, che senso ha far sciare i non vedenti a tutti i costi? Non dobbiamo diventare tutti ciechi perché c’è qualcuno che non vede!

Un anno mi è capitato di fare una discesa con una ragazzina non vedente – non della mia classe – che sciava seguendo il suono prodotto dal maestro di sci. All’arrivo la felicità di questa ragazzina, per aver vissuto l’ebrezza della discesa, era talmente assoluta che io mi sono rimangiata una per una le parole che avevo detto in Collegio.

D: La vita ti ha “ricacciato alle medie” e così non hai insegnato al liceo. In che senso le medie sono un periodo speciale, diverso dal liceo?

R: Gli anni della pre-adolescenza sono meravigliosi. Molte cose vengono intraviste per la prima volta e si ha la possibilità di scoprirle e di sperimentarle insieme.

Il nostro “essere a scuola”, di noi professori dico, ha senso perché ci sono i ragazzi. E noi tutti (ministro, ispettori, dirigenti, gli applicati inclusi) siamo al loro servizio. 

Per i ragazzi quel momento di vita è quello. Non c’è altro. Ed è in quel momento, in quegli anni, che possono vivere esperienze che aprono loro spazi di scoperta, di ricerca, di crescita, di consapevolezza.

D: Ci sono delle esperienze che è importante fare – a livello formativo – alle medie?

R: Insegnare lettere alle medie significa avere a disposizione tante ore e tante aree disciplinari da esplorare con il gruppo classe. C’è la possibilità di tessere con i ragazzi una rete di base costruita sulle esperienze personali e condivise, sulla percezione di sé e degli altri, sui meccanismi delle nostre relazioni, sulle proprie emozioni. Si impara così a stare con gli altri.

Cosa succede quando c’è un conflitto? Si può far finta di niente o vedere cosa sta accadendo nel gruppo. In classe ho praticato alcune tecniche che hanno funzionato. Ad esempio la condivisione regolare con il giro del sasso.

Con il giro del sasso si ferma l’attività didattica, ci si siede in cerchio, e il primo che ha il sasso tra le mani dice quello che sente di voler condividere in quel momento. Magari c’è qualcosa che lo ha ferito o qualcosa per cui vuole ringraziare. Magari ha un desiderio che non ha avuto ancora il coraggio di manifestare o ha una proposta da fare… Quando ha finito, passa il sasso al compagno vicino.

Chi riceve il sasso può anche scegliere di non dire niente. E’ uno spazio libero di condivisione, di ascolto reciproco, alla pari.

(Sandra mi mostra un sasso che ha trovato anni prima su una spiaggia scozzese, in un momento difficile della sua storia familiare, un sasso che ha scelto non per averlo visto, ma dopo averlo preso in mano, senza guardarlo. Me lo mette nel palmo. Ha una forma arrotondata, con delle lievi onde sulla superficie, che è liscia e leggermente porosa, quasi fresca. Poi Sandra mi fa notare una crepa, di cui non mi ero accorta, e mi racconta che il sasso era caduto accidentalmente a una sua allieva: doveva superare un intervento chirurgico, aveva paura, perciò aveva chiesto il sasso in prestito alla classe, come sostegno. Mi dice che quando lo ha riportato scheggiato era davvero mortificata; lo hanno riparato e ora è ancora più bello.)

D: Sandra, hai altri ricordi del periodo in cui insegnavi?

R: La scuola non è solo “programma e contenuti”. 

Se lavoriamo con una visione integrata di tante dimensioni – quali sono quelle dell’essere umano – succede che i contenuti del programma vengono appresi più facilmente. Non è tempo perso, ma è guadagnato. Altrimenti si rischia di fare una scuola che tocca tanti argomenti, ma che non offre esperienze che penetrino in profondità. E’ la differenza che corre tra informare e formare.

Quello che funziona di più sono i momenti vissuti consapevolmente, a livello sensoriale, emozionale, gestuale, momenti sentiti, compresi e condivisi.

Ho sempre prediletto le prime ore – le più efficaci – e spesso iniziavamo la giornata in giardino. Mi è sempre piaciuto uscire dalla classe in un modo cosciente, rituale. Ad esempio, per andare in uno spazio per le attività teatrali, uscivamo in fila indiana dietro al capofila che teneva in mano una candela. 

Quando cominciavo il Medioevo – mi ero procurata cannucce e pennini per tutti – davo il modello di alfabeto e ognuno scriveva in gotico “Il Medioevo” e il proprio nome. A distanza di anni una ex studentessa mi ha scritto: Mi ricordo ancora com’era scrivere con il pennino, mi piaceva molto!

Io ho sempre insegnato con la candela, un fiore, una piantina… qualcosa di vivo che ci ricordasse: stiamo vivendo questo momento unico e irripetibile.

Dato il contesto, come preme la vita per manifestarsi? E quello va colto e favorito.

E’ importantissimo lo spazio e la cura dello spazio. 

Ho sempre fatto in modo che ci fossero degli armadi – che dipingevo e restauravo con i ragazzi – in modo che ognuno di loro avesse un posto dedicato al proprio materiale.

Un volta dei genitori della Vivaio sono venuti di sabato e hanno imbiancato la nostra aula. Alcune mamme avevano cucito delle grandi tende bianche… 

La cura dello spazio è contagiosa!

Per anni – anche in Barona, a Gratosoglio e a Porta Romana – ho sempre favorito il giorno della disinfestazione. Arrivavo con guanti monouso per tutti, venivano rovesciati i banchi e ognuno ripuliva il suo di tutte le cicche che erano state appiccicate negli anni precedenti.

Tutta la classe era mobilitata a pulire a fondo, anche sopra gli armadi. Alla fine eravamo contenti: quello era diventato davvero il nostro spazio!

E’ un momento di profonda educazione civica, più efficace forse della lettura di un capitolo del manuale. E’ la scuola come vita vissuta: siamo qua e qua viviamo.

Non ho mai iniziato una lezione con fogli o pezzetti di carta per terra. Io li tiro su; è un’esigenza che sento io; magari poi la senti anche tu.

E a proposito di foglietti, c’era il momento in cui “bruciavamo” gli errori di ortografia, che erano stati a suo tempo individuati, segnalati e registrati su dei bigliettini. Dopo un dettato ortografico riparatore, veniva il momento magico nel quale venivano bruciati uno dopo l’altro in una scatola di latta. Fine degli errori ortografici.

In terza ho introdotto il rito di scrivi una lettera a te stesso tra… venti… trenta anni, con tanto di busta e francobollo. Io poi le inviavo, a mia discrezione, dopo un bel po’ di tempo, quando ormai non ci pensavano più.

D: Come si impara a insegnare?

R: Ricordo ancora la prima volta che sono entrata, come supplente, in una scuola del Corvetto. Ricordo il lungo corridoio, il senso di spaesamento e inadeguatezza che sentivo prima di entrare in quella classe… Erano gli anni ‘70. 

Poi ho vissuto la scuola e mi sono attrezzata. Ma questo formarsi strada facendo, dura tutta la vita. 

E’ importante dare l’occasione agli insegnanti giovani di fare esperienze pedagogiche concrete, stare sul campo e vedere come funziona. Mi riferisco alla funzione del tutor.

Va favorito il contatto con le università in modo tale che chi sta facendo studi di pedagogia e di scienze umane possa fare esperienza nella scuola attuale.

D: A proposito di condivisione delle esperienze: tu hai collaborato con gli altri professori in un’ottica di multidisciplinarietà e interdisciplinarietà

R: In Vivaio ci si confrontava sempre – e non solo all’interno del consiglio di classe – sui programmi curricolari, sui progetti laboratoriali interclasse, musicali, teatrali,   interdisciplinari…

Anche nella scuola sperimentale della Moneta c’erano dimensioni multi e inter-disciplinari.

Non c’era un solo settore didattico a cui pensare e all’interno del quale rimanere.

Avere una dimensione trasversale è utile e fecondo, tanto più quando si ha a che fare con la cosiddetta disabilità. Non mi piace questa parola. Preferisco pensare a persone speciali, sorprendenti, al limite diversabili!).

D: Parlaci della tua esperienza con la cosiddetta disabilità

R: Fin dagli anni della Moneta a Gratosoglio, mi è capitato di lavorare con persone gravemente diversabili. Una di loro, Isacco, aveva bisogno di più tempo nella scuola media, affiancato da una figura di riferimento conosciuta. Ero stata la sua insegnante di Lettere e potevo continuare a seguirlo come insegnante di sostegno alla Gramsci.

(Nel frattempo la Moneta era stata chiusa. Vita difficile per le scuole sperimentali!) 

Io e Isacco ci vediamo ancora e siamo rimasti in una relazione di grande affetto e significato per entrambi.

Grazie a questa esperienza ho potuto approfondire quello che l’handicap, il limite, il blocco possono insegnare a un insegnante. Mi ha permesso di entrare nella dimensione elementare, di base, della struttura della conoscenza, della parola, della ricerca…, di analizzare i processi di apprendimento senza perderne nessun passaggio. Mi ha portato a comprendere quanto tutto questo sia importante anche per il gruppo classe. 

Da questo punto di vista gli anni della Gramsci, alla Barona, sono stati molto importanti per me. La visione portata avanti dal gruppo dei docenti di sostegno, del quale facevo parte, era diventata il cuore di tutto il piano formativo della scuola. Molti docenti della Gramsci sono poi emigrati, subito dopo di me, alla Vivaio: Luisella Inga, Luca Lucchesi, Rosalba Rinaudo, Marina Bernasconi, Maria Teresa Vasaturo.

Nel frattempo avevo acquisito un’altra bussola, grazie a una formazione di pedagogia steineriana. 

In Vivaio la situazione era favorevole per riprendere la conduzione di una classe, come insegnante di Lettere, attenta all’integrazione.

D: Nel 2001 hai lasciato la Vivaio e sei andata in un’altra scuola, sempre pubblica

R: Io ho sempre creduto nella scuola pubblica, sono contenta che ci sia una scuola pubblica, che per me va sostenuta, come va sostenuta la sanità. 

Dopo la Vivaio sono tornata volontariamente alla Gramsci. 

La scommessa era: quello che riesco a fare alla Vivaio, posso farlo anche alla Barona? Posso mantenere, anzi alzare l’asticella? Questo era il mio intento, la scommessa che volevo vincere.

E’ stata un’esperienza molto bella e significativa. Mi sono capitate classi con ragazzi provenienti da molti Paesi, di diverse culture.

Sia a Gratosoglio che alla Barona ho trovato questa umanità in cammino che ha voglia di esserci, di partecipare e che, se viene messa in condizioni di esprimersi e di incontrarsi (parlo anche delle famiglie), si esprime e partecipa. 

Trovo che sia molto ricco vivere in una realtà sociale che è quella di quartiere. 

La Vivaio aveva la caratteristica di raccogliere un’utenza quasi tutta centrale rispetto alla città e, da un punto di vista socio-culturale, piuttosto omogenea.

Può essere una possibilità positiva che oggi la Vivaio non sia più così centrale. La possibilità che debba fidarsi più di se stessa, in un senso profondo.

D: Hai dei rimpianti rispetto alla Vivaio? O qualcosa che avresti voluto venisse fatto diversamente?

R: Mi sarebbe piaciuto un metodo di selezione dei nuovi allievi per sorteggio, tra tutti quelli che avevano superato il test di idoneità musicale.

D: Cosa senti di aver lasciato ai colleghi delle altre scuole?

R: La cura dello spazio comune, la condivisione della bellezza.

Io ho sempre fatto in modo di lavorare con la presenza delle piante. Le portavo e le mettevo ovunque, in classe, nei corridoi, in sala professori… 

E’ proprio un mio bisogno avere qualcosa che cresca e viva vicino a noi, con noi.

Ogni tanto incontro qualche ex collega che a distanza di anni mi dice: ci sono delle piante tue, sono ancora vive! E’ un buon segno. 

D: L’ultima scuola in cui hai insegnato è stata la Confalonieri. Raccontaci com’è andato il tuo primo incontro con i genitori, quando ti sei alzata e sei andata a dare la mano a tutti. 

R: Quando ho cambiato e dalla Barona sono approdata in Porta Romana, mi hanno assegnato una terza che aveva avuto una storia difficile, c’erano stati aspri conflitti con le famiglie.

Ricordo il primo incontro con i genitori. Ho percepito che erano molto sulla difensiva. Adesso vediamo quale altro problema ci capiterà. 

Io li ho guardati e ho detto: signori, se andiamo avanti così, non arriviamo da nessuna parte. Mi sono alzata e sono andata a stringere la mano a ciascuno di loro.

E’ vero che è un gesto simbolico, ma è un gesto importante: diamoci la mano! 

Qualunque cosa sia successa prima, adesso siamo qui noi. Come vogliamo partire? Noi da una parte e voi dall’altra? O vediamo di guardarci in faccia e di vedere cosa si può fare insieme?

Per me è stato sempre importante il rapporto con le famiglie degli alunni, in qualunque situazione mi sia trovata. C’è un’alleanza che va nominata e vissuta, un’alleanza di fondo: il mio intento è di lavorare con sua figlia o con suo figlio. Lei è il genitore, io sono l’insegnante, ognuno si prende il suo pezzo di responsabilità e collaboriamo.

D: Siamo in un periodo in cui le istituzioni non valorizzano la scuola e i bisogni dei ragazzi

R: Ho voglia di esser ottimista, in questo momento: spero che le nuove generazioni abbiano una loro capacità di adattamento.

Ho l’impressione che siamo una complessità sempre in movimento e con una volontà, un istinto e una propensione a fiorire, anche quando apparentemente siamo autodistruttivi e disastrati. 

Tutte le scuole possono essere sperimentali, possono proporre delle esperienze significative e feconde, anche se scalcagnate.

A volte c’erano dei genitori che mi dicevano: avrei voluto che mio figlio fosse nella sua classe. E io facevo notare che si cresce anche per opposizione ai modelli che non riconosciamo come “buoni”. Vivere e crescere in una situazione difficile può dare l’opportunità di acquisire un senso di sé più forte e più solido.

D: Tu – come la maggior parte dei professori che abbiamo intervistato e che hanno insegnato in scuole sperimentali – non sembri avere delle ricette che possano andare bene per tutti, E’ così?

R: Viene fuori dalle scuole sperimentali il darsi la possibilità  di sperimentare, di vedere cosa succede qui e ora, se mi metto attento, aperto e disponibile al nuovo, a qualcosa che ancora non sappiamo.

Non c’è niente da salvaguardare, ma c’è tutto da scoprire. 

Quello che funziona sempre, senza eccezione, è l’essere qui e ora – con quello che c’è qui e ora. Ognuno poi trova il suo modo personale e creativo, attingendo al bagaglio delle esperienze formative che ha fatto e che continua a fare su di sé.

L’esperienza con la disabilità è molto arricchente in questo senso. A me ha insegnato molto. Si sta con il limite e con il limite si vede cosa succede.

D: Ora che sei in pensione di cosa ti occupi?

R: Con l’Associazione “La Nostra Comunità” mi occupo di condurre pratiche di Rio Abierto con gruppi di disabili adulti.

Sono incontri, sostenuti dalla musica, nei quali sperimentiamo il movimento corporeo,  l’espressione emozionale, la relazione e la creatività.

D: Hai qualche consiglio per noi?

R: Il rischio concreto di essere considerati mosche bianche è reale, ma il vostro intento potrebbe essere quello di passare il messaggio: attenzione, siamo tutti mosche bianche!

Ognuno ha il suo potenziale – sia come docente sia come alunno – da scoprire e manifestare. 

In questo la scuola è una palestra meravigliosa, uno spazio e un tempo di allenamento del quale abbiamo il diritto e il dovere di fare buon uso. Una palestra di socialità, di conoscenza, di ricerca, di responsabilità. 

Un allenamento nell’esserci.

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